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Coronavirus e movida: non sparate sul… barista. E basta con la caccia all’untore

24 maggio 2020 | 09:23
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Coronavirus e movida: non sparate sul… barista. E basta con la caccia all’untore

Molti esercenti sono andati ben oltre al rispetto delle regole ma anche i controlli, senza responsabilità dei singoli, non possono bastare

Non sparate sul barista. E basta con la caccia all’untore.

Il primo vero weekend con i locali aperti, secondo le disposizioni dei decreti ministeriali, è cominciato fra polemiche e tanta isteria. E, come ci si poteva aspettare, la città si è divisa in due fazioni: quelli che “le regole vengono rispettate” e quelli che “torneranno a salire i contagi”. Decine le segnalazioni, ogni giorno, con foto e video, di situazioni ‘irregolari’ o non rispettose delle norme governative o regionali.

Una situazione che De Andrè avrebbe commentato dicendo che “chi non terrorizza si ammala di terrore”. O di fame.

Già, perché la questione è semplice. Dopo due mesi di chiusura totale i locali hanno potuto riaprire seguendo le regole dei decreti governativi: distanza fra un metro dei tavolini che, a ben vedere, non ha modificato di molto l’aspetto dei dehors dei locali del centro. Dispenser con gel alcolico, sanificazioni, distanze all’interno dei locali. Ma fuori? Fuori tutto è demandato, alla fine, alla responsabilità dei clienti, un po’ come per gli schiamazzi notturni e per quelli che ubriachi pisciano sui portoni delle case.

Vista la situazione, però, e temendo nuovi lockdown imposti da governo, Regione o Comune alcuni esercenti (vedi piazza San Michele a Lucca) sono andati oltre: steward privati e chiusura a mezzanotte, praticamente quando inizia l’afflusso dei clienti.

Cosa pretendere di più? Dei controlli effettivi da parte delle forze dell’ordine, forse, che, spesso, passano senza aver alcun effetto deterrente sui crocchi di giovani e giovanissimi, senza mascherina o altra protezione, che parlano a un centimetro di distanza o violano in qualche modo le disposizioni vigenti. Ma come si può immaginare, una volta aperta la possibilità di recarsi in un bar o in un ristorante, di militarizzare un centro storico o un quartiere?

Tanto più che, questo lo dicono gli studi, le situazioni di maggiore rischio contagio non sarebbero quelle della ‘movida’ ma quelle in famiglia e nei luoghi di lavoro. Situazioni che potrebbero essere mitigate da una vera campagna a tappeto di test sierologici con tempi certi. E invece per la maggior parte il test viene demandato (e pagato) ai privati e i risultati arrivano a lunga distanza. Ci sono situazioni di positivi al test rapido che a due settimane di distanza non sanno l’esito del conseguente tampone: e potrebbe trattarsi di possibili contagi anche pre lockdown. Abbastanza per pensare che l’effetto delle riaperture delle attività produttive ancora non sia stato valutato dalle ‘statistiche’ quotidiane, che spesso lasciano il tempo che trovano.

E allora? Lavarsi spesso le mani, usare le mascherine e mantenere le distanze. Le regole sono semplici e varrebbero per tutti, che sia ‘movida’ o altra situazione. Anche se, è bene ricordarlo, aprire alla socialità non significa soltanto finire a bersi una birra a distanza fuori dal locale. O si vuole pensare che improvvisamente i lucchesi e le lucchesi, gli italiani e le italiane, si siano dati da un giorno all’altro alla vita monastica?

Per questo, con la consapevolezza che il ‘virus è tra noi’ non sparate sul barista. E niente caccia all’untore, salvo usare lo zoom o il cannocchiale anche per entrare nelle case private dei cittadini, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro.